Secondo molti studi condotti da esperti di psicologia dello sport il principale motivo è la scarsa percezione della propria competenza nello sport, banalmente è la difficoltà ad accettare un confronto prestazionale contro un altro.

Questo problema nasce anche da una difficoltà di fondo di cui vengono accusate le società sportive: troppa propensione alla performance (quindi alla valutazione del risultato vs un avversario) piuttosto che alla competenza (il raffronto con i propri miglioramenti personali).

Sono considerazioni corrette e credo che un suggerimento, un consiglio, una disposizione che si può dare è proprio quella di impostare una cultura societaria basata sulla competenza, sul far capire al/la ragazzo/a quanto per diventare bravo in uno sport sia necessario investire su di sé, piuttosto che sprecare risorse nel raffronto continuo ed ossessivo con l’avversario: se non si vive lo sport come una soddisfazione personale lo si abbandona non appena il confronto si farà “impossibile” (a meno che non si diventi campione del mondo, anche se poi probabilmente si molla comunque a causa della troppa esasperazione che avrà consumato energie nel percorso).

 

Detto questo va però capito il reale fenomeno che sta dietro al Drop Out, che è quanto di più osservabile possibile: i ragazzi crescono, vogliono diventare indipendenti e cercare la loro strada.

La chiamano pubertà.

E’ il momento in cui la soddisfazione immediata è necessaria, per essere sicuri di stare nel posto giusto ed essere la persona giusta.

E’ una lotta verso l’alto, in cui ci si sente perdenti se non si riesce.

Negli Stati Uniti questo fattore sociale è molto evidente e marcato .In Italia ,quasi sempre, è un più semplice “pollice su o pollice giù”.

Non si tratta di resilienza dello sport (la capacità di accettare le sconfitte e di ripartire senza “scorie”), si tratta proprio di ferite dell’ego personale!

Tornando al consiglio iniziale, quello di favorire la competenza e non la performance, ci si accorge di quanto sia banale e riduttivo pensare in quei termini, quando dietro ad esso si nasconde un intero universo personale.

Culturalmente si è troppo portati a pensare “affari suoi”, “imparerà”, “si arrangerà” per poi manifestare finto stupore quando il ragazzo riporta la borsa dicendo che non ha più tempo per partite ed allenamenti…

Questa è la balla numero uno, i ragazzi hanno tempo e soprattutto lo trovano per le cose che amano.

 

Il particolare da non dimenticarsi è quello dell’identità personale dello sportivo, del valore umano che porta con sé.

Lo sport non deve essere un ostacolo per la realizzazione personale. Anzi deve favorirla.

Lo sport rappresenta un contesto in cui si possono apprendere nuove competenze, diventare autonomi e consapevoli delle proprie capacità, mettersi in gioco, collaborare con gli altri, rispettare le regole, accettare le decisioni di arbitri e giudici.

Nonostante i benefici siano ampiamente riconosciuti, in molti paesi da alcuni anni, vi è una diminuzione della pratica sportiva già in età evolutiva, soprattutto per quanto riguarda le ragazze le quali abbandonano prima ancora di iniziare una vera carriera atletica.

Comprendere le motivazioni che portano all'abbandono della pratica sportiva può servire a coloro che organizzano e gestiscono lo sport giovanile, ma anche a chi si occupa di politiche legate alla salute.

In genere viene definito come "dropout" l'abbandono prematuro di una carriera sportiva, prima, cioè, che un atleta abbia potuto esprimere completamente il proprio potenziale.

Ovviamente non c'è un unico motivo per abbandonare lo sport, in quanto ciò può essere condizionato dalla combinazione di diversi fattori.

Ad esempio, la difficoltà a conciliare scuola e sport viene evidenziata dai ragazzi come causa frequente di abbandono; del resto, il periodo di tempo in cui si comincia ad impegnare in modo sistematico ed intenso coincide in genere con gli anni della scuola superiore.

 

Altri motivi di abbandono dichiarati riguardano anche disaccordo con l'allenatore, mancanza di divertimento, presenza di infortuni, scarsa percezione di competenza, influenza di altre persone (genitori o compagni), scarse opportunità di successo.

I dati internazionali evidenziano in diversi paesi percentuali di progressivo abbandono dello sport.

Ad esempio, negli Stati Uniti la media è di circa il 35%, in particolare tra i 13 e i 18 anni.

Per quanto riguarda l'Europa, in Norvegia la percentuale è del 22% tra i 13 e i 16 anni, mentre in Francia, in campioni simili per età e sport, le percentuali nei diversi studi oscillano fra il 14 e il 17%.

Per quanto riguarda l'Italia da una ricerca condotta dalla Scuola dello Sport del CONI dal titolo “Abbandono sportivo” si sono ricavati questi dati: il 60% non praticano nessuna disciplina, il 17% non hanno mai praticato; il 43% ­Hanno praticato e hanno abbandonato.

Tra i praticanti che sono il 40% , il 50% praticano ma hanno cambiato sport; il 50% praticano e non hanno cambiato sport.

In uno studio riguardante l'abbandono giovanile di giocatori di alto livello, si è scoperto che coloro che abbandonano hanno partecipato ad allenamenti o hanno iniziato ad allenarsi in età giovanile, quindi precocemente.

È interessante notare quindi come, la specializzazione precoce dei giovani atleti, insieme a fattori fisici, ad esempio, i modelli di formazione, livello di maturazione; fattori psicosociali, ad esempio, allenatore, genitore e le influenze dei coetanei e svariati fattori sopra citati, interagiscano tra di loro influenzando i processi decisionali che portano poi al fenomeno dell'abbandono sportivo.

L'abbandono dell'attività sportiva viene in genere collegato ai processi motivazionali, considerando il calo (o la perdita) di motivazione come determinante per lasciare l'attività, a volte anche con una diminuzione della fiducia nelle proprie capacità e quasi con un senso di fallimento personale.

La percezione di competenza può anche variare nel tempo in base alla situazione che l'atleta sta vivendo.

L'allenatore può sicuramente giocare un ruolo attivo nel coinvolgimento motivazionale, costruendo un certo clima educativo ed indirizzando così la percezione degli allievi. Quando un allenatore interagisce con gli allievi, sia in allenamento che in gara, mette in atto i comportamenti che ritiene più adeguati ed utilizza un certo tipo di comunicazione; ad esempio, può valorizzare e sottolineare i miglioramenti individuali, incoraggiare chi vede in difficoltà, utilizzare spesso la competizione fra compagni per stimolare l'impegno, organizzare gruppi di lavoro prevalentemente per livello di abilità, reagire in modo pacato o bruscamente di fronte ad un insuccesso o ad una sconfitta in gara, in uno sport di squadra far giocare tutti o soprattutto i migliori.

 

In genere, gli allenatori che forniscono scarso supporto sociale (cioè pressione, aspettative irrealistiche, mancanza di empatia, la mancanza di fiducia nell'atleta) avendo uno stile autocratico e atteggiamenti negativi, aumentano le motivazioni per l'abbandono e il BURNOUT.

Affrontando il tema della motivazione è comunque necessario fare delle riflessioni anche sul ruolo dei genitori, che incidono fortemente sul modo in cui i ragazzi interpretano le esperienze che si trovano a vivere.

Purtroppo, con gli attuali modelli culturali trasmessi dai mass media, è oggi abbastanza frequente incontrare genitori che esortano il figlio non tanto a fare del proprio meglio, magari accettandone anche qualche limite o difficoltà, ma soprattutto a fare meglio di altri, a superare un amico, un compagno, in un confronto continuo con qualcun altro. Nello sport, ad esempio, il modo in cui i genitori reagiscono a vittorie e sconfitte manda forti messaggi ai ragazzi sul valore attribuito non solo all'esperienza sportiva, ma a volte anche al figlio stesso come persona.

I genitori devono inoltre cercare di distinguere chiaramente tra le proprie motivazioni e quelle del figlio.

Ci sono molte ragioni per cui fa loro piacere che i figli pratichino uno sport, magari essi stessi sono stati ex atleti e desiderano che anche i propri figli vivano esperienze di questo tipo.

Essi però devono considerare che la motivazione è individuale e che la loro può non coincidere con quella dei figli.

Infine, i genitori dovrebbero poi essere consapevoli che anche nello sport, come in tutti gli altri contesti della vita, essi rappresentano modelli di ruolo e di comportamento; nel processo educativo un aspetto fondamentale è la coerenza fra quello che gli adulti chiedono ai ragazzi ed i loro propri comportamenti: se c'è coerenza, il messaggio educativo passa in modo chiaro, ma se c'è discordanza fra ciò che si dice e come ci si comporta, l'aspetto comportamentale diviene predominante.

 

I genitori rappresentano, in particolare, modelli di comportamenti critici, quali quelli legati ad esempio all'autocontrollo, alla gestione della frustrazione o ad aspetti di etica sportiva. In genere, gli studi che esaminano i comportamenti genitoriali associati allo sport giovanile, hanno scoperto che il sostegno, l'incoraggiamento, il coinvolgimento e la soddisfazione del genitore provocano nel bambino un aumento della sensazione di divertimento e della loro motivazione intrinseca.

Al contrario, le elevate pressione dei genitori, le grandi aspettative, le critiche e il poco sostegno diminuiscono la sensazione di godimento, provocano ansia, abbandono e BURNOUT.

Dal punto di vista motivazionale non va trascurata nemmeno l'influenza che compagni ed amici possono avere a questo proposito.

Durante gli allenamenti e le competizioni, i ragazzi e le ragazze interagiscono molto con i coetanei, vivono relazioni significative alla pari, dai compagni ricavano informazioni importanti sul proprio livello di abilità e competenza.

Inoltre, man mano che i ragazzi crescono, passando dall'infanzia all'adolescenza, il giudizio dei compagni acquista progressivamente maggior valore e peso nella valutazione di aspetti di sé, quale, ad esempio, la competenza motoria.

È dunque importante che anche i ragazzi acquisiscano consapevolezza dell'impatto che i propri atteggiamenti e comportamenti possono avere sui compagni, riflettano sulle proprie reazioni nei momenti emotivamente carichi e sugli effetti che commenti e osservazioni possono avere sugli altri, apprendano in allenamento comportamenti che possano non solo risultare utili dal punto di vista del clima di gruppo, ma anche avere ricadute positive sulla prestazione stessa.

Le relazioni tra coetanei giocano un ruolo importante nello sport giovanile.

 

Se il ragazzo ha un rapporto positivo con i propri compagni, questo rapporto rafforzerà il loro piacere e il loro impegno per l'attività, al contrario, se il giovane è in conflitto, l'impegno e la motivazione diminuiranno.

Altri studi hanno evidenziato come la partecipazione insieme ai migliori amici porta ad un aumento dell'impegno e del coinvolgimento sportivo.

Il punto di massima pratica sportiva si registra tra gli 11 e i 14 anni.

Subito dopo inizia il calo: in particolare tra gli adolescenti la pratica sportiva subisce un calo annuo di circa il 10% in meno.

Nel presentare e commentare il dato, spesso si assiste al tentativo, più o meno strisciante, di far passare il messaggio che questo abbandono sia da imputarsi soprattutto alla insufficiente motivazione allo sport, ovvero all'impegno da parte degli adolescenti, facili prede dei videogiochi o di altri divertimenti di più comodo ed immediato consumo. Sembra di assistere, ancora una volta, al tentativo del mondo adulto di scaricare le proprie responsabilità, facendo sembrare che l'allontanamento degli adolescenti dalla pratica sportiva sia sostanzialmente colpa della loro inettitudine ed incapacità di cogliere e perseguire i valori dello sport.

 

Ma siamo davvero sicuri che le cose stiano così? Che vi sia un calo della pratica sportiva all'ingresso in adolescenza è un dato certo.

Meno certo è che siano gli adolescenti ad abbandonare lo sport, mentre forse è proprio il contrario, ovvero che nel passaggio dalla fanciullezza alla giovinezza si consumi il ‘tradimento' dello sport verso di essi.

Forse è proprio il mondo dello sport, quello in cui dominano gli adulti, con i suoi ritmi, interessi, esasperazioni ad alimentare il disagio fino a produrre malessere e disadattamento sportivo invece di quegli aspetti di benessere e inclusione che la retorica dello sport è sempre così pronta a celebrare.

Forse, a 14 anni, con già diversi anni di pratica sportiva alle spalle, l'allontanamento altro non è che il risultato prodotto dall'accumulo di ‘tossine sportive'.

Basti pensare, per fare solo un esempio, alle tossine del dare precedenza ai risultati: si pretende il raccolto senza avere avuto la pazienza di seminare ed aspettare i ritmi della crescita. Nel mondo dello sport sembra non esserci il tempo per aspettare.

I ragazzi vengono inseriti in un percorso dove la selezione è sia la regola che l'esito finale.

Si finisce in un imbuto nel quale entrano in tanti e dal quale passano in pochi, perché è apertamente dichiarato che il traguardo è proprio quello di passare in pochi.

Se non si riesce a passare dalle strette maglie che lo sport impone, lo sport ti abbandona, e all'adolescente non resta che prenderne atto, ferito e sconfitto, a volte irrimediabilmente già a 14/15 anni.

Si potrebbe obiettare: ma la competizione è parte integrante dell'esperienza sportiva.

E' vero. Ma attenti a non confondere la competizione e la relativa carica agonistica con la selezione.

 

Lo sport insegna e sprona a dare sempre il meglio di sé, non a combattere per eliminare i potenziali avversari.

Al contrario, l'avversario è quanto di più prezioso ci possa essere, dal momento che senza di esso, senza il confronto e la competizione con esso non è possibile scoprire e migliorare il proprio valore.

Il dono più alto che lo sport ci può dare non è infatti la vittoria sempre e comunque ma la consapevolezza di quanto valiamo, di quanto potremmo valere e quindi del nostro limite, individuale e di squadra.

Quando le cose funzionano, l'adulto sportivo è consapevole di tutto questo ed aiuta, o meglio ‘allena', il ragazzo prima ed il giovane poi a esprimere sportivamente il meglio di sè.

Quando l'adulto non vuole, non sa o non ce la fa, forse tocca proprio ai più giovani dare una mano per cambiare le cose, cambiare la prospettiva: passare dalla selezione che esclude alla sfida che coinvolge.

Altrimenti è molto forte la tentazione di lasciare: non c'è più gusto... se non c'è sfida autentica, rimane solo la fatica, la noia di ripetere gesti privi di senso.

Lo sport è proprio come il sale: quando perde il gusto non è buono più a nulla, e guai a chi al sale sportivo ha fatto perdere di gusto.

Cosa può significare ‘dare una mano' agli adulti sportivi da parte dei più giovani?

La risposta è drammaticamente semplice: ricordare e chiedere loro di mettere in atto quattro azioni di fondamentale importanza per un adolescente:

a) “ indicami la mia qualità”;

b) “ dimmi qual è il mio compito”;

c) “ mostrami dove posso arrivare”;

d) “intuisci il sogno che porto nel cuore”.

 

E pensare che la buona notizia ci sarebbe.

E riguarda proprio i più piccoli.

In dieci anni (2001-2011) tra i bambini di età compresa tra i 6 e i 10 anni la pratica sportiva continuativa è aumentata di oltre 5 punti percentuali, passando dal 48,8% al 54,3%.

E nell’ultimo anno, grazie a una ulteriore crescita di circa 3 punti percentuali, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese.

Quasi 6 su 10 (57%) praticano uno sport in maniera continuativa, in testa nuoto e danza, percentuali che non si registrano in nessun’altra età della vita.

Segno che le campagne antiobesità volte a favorire stili di vita corretti portate avanti da istituzioni, pediatri, scuola, con il coinvolgimento dei genitori, stanno dando i loro frutti.

Ma le notizie positive finiscono qui, anzi ne segue una negativa. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e ad ingrossare le fila dei sedentari.

Una parabola che diventa discendente al crescere dell’età.

A preoccupare non è solo l’abbandono della pratica sportiva in età preadolescenziale e adolescenziale, ma l’elevato numero di sedentari assoluti, di coloro cioè che non praticano né sport (in maniera continuativo o saltuaria che sia) né alcuna attività fisica.

Il fenomeno riguarda soprattutto le ragazze in una percentuale che va da 24% (tra i 15 e 17 anni) al 30% (tra i 18 e i 19 anni) sul totale .Non v’è dubbio che nel divorzio tra adolescenti e sport un ruolo ce l’abbiano le nuove tecnologie.

Come ha messo in luce l’indagine i teenagers trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo: tv, computer o smartphone che sia.

Ma questo non basta a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei i quali non sono da meno dei ragazzi italiani nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso.

Studi svolti in alcune città italiane hanno evidenziato due principali motivi di abbandono, uno legato all’eccessivo impegno richiesto dallo studio (56,5%) e l’altro riconducibile alle modalità di svolgimento dell’attività fisica perché “fare sport è venuto a noia” (65,4%), “costa troppa fatica” (24,4%), e gli “istruttori sono troppo esigenti” (19,4%). “Per riavvicinare gli adolescenti all’attività fisica e sportiva bisogna offrire loro nuovi stimoli”.

L’agonismo esasperato, le aspettative e le pressioni eccessive rischiano di allontanare i giovani dallo sport.

Occorre valorizzare di più l’attività fisica anche non strutturata e la pratica sportiva non agonistica e questa è una sfida che coinvolge le società sportive.

Ma il ruolo centrale spetta alla scuola.

Soprattutto in quella media e superiore lo sport dovrebbe essere favorito ed incentivato, mentre oggi è considerato una perdita di tempo che toglie spazio ad altre attività più importanti.

 

L’educazione fisica è parte integrante dello sviluppo psicofisico degli adolescenti: lo sanno bene Paesi come la Francia che dedicano a questa attività il 15% dell’orario complessivo scolastico, percentuale che scende al 7% per gli scolari italiani. Circa un terzo dei Paesi europei sta lavorando oggi a riforme che riguardano l’educazione fisica con interventi di vario tipo volti ad aumentare l’orario minimo, diversificare l’offerta, promuovere la formazione di coloro che la insegnano”.

 

In riferimento alle ragioni del drop out, in estrema sintesi possiamo parlare di quattro categorie:

1) Questioni tecniche: mancanza di divertimento mancanza di successo stress da competizione noia/ monotonia infortuni sportivi eccessiva fatica livelli di competitività esasperati incomprensioni con l’allenatore. Rapporti interpersonali: assenza appoggio dei genitori difficoltà coesione di gruppo

2) Rapporto genitori/allenatori compagni non adeguati

3) Contesto sociale: difficoltà scolastiche mancanza di tempo crisi adolescenziale altri interessi prevalenti non conciliabilità con lo studio crisi economica.

4) Contesto sportivo: difficoltà a raggiungere l’impianto costi elevati ambiente non adeguato strutture carenti orari scomodi.