Allenare comunicando | Fabio PECCHIA  

    Formazione Tecnica

Allenare Comunicando

Premessa

"Los momentos de mi vida en los que yo he crecido tienen que ver con los fracasos; los momentos de mi vida en los que yo he empeorado, tienen que ver con el éxito.

El éxito es deformante, relaja, engaña, nos vuelve peor, nos ayuda a enamorarnos excesivamente de nosotros mismos; el fracaso es todo lo contrario, es formativo, nos vuelve sólidos, nos acerca a las convicciones, nos vuelve coherentes.

Si bien competimos para ganar, y trabajo de lo que trabajo porque quiero ganar cuanto compito, si no distinguiera qué es lo realmente formativo y qué es secundario, me estaría equivocando."

"I momenti della mia vita nei quali sono cresciuto di più sono collegati agli insuccessi; i momenti della mia vita nei quali sono peggiorato sono collegati al successo.

Il successo è deformante, rilassa, inganna, ci rende peggiori, ci aiuta ad innamorarci eccessivamente di noi stessi; al contrario, l'insuccesso è formativo, ci rende stabili, ci avvicina alle nostre convinzioni, ci fa ritornare ad essere coerenti.

Sia chiaro che competiamo per vincere, ed io faccio questo lavoro perché voglio vincere quando competo ma se non distinguessi quello che è realmente formativo e quello che è secondario, commetterei un errore enorme"  (Marcelo Bielsa)

Introduzione

si è reso necessario un intervento urgente per riorganizzare l’attività interessata dai provvedimenti e supportare il lavoro delle Società in un periodo che richiede, ancora una volta, grande senso di responsabilità e capacità di fronteggiare una situazione in continua evoluzione.

Nonostante le evidenti difficoltà nell’adattarsi alle recenti disposizioni per uno sport di contatto come il calcio, a maggior ragione in ambito giovanile, è importante non fermarsi per garantire il proseguimento dell’attività sportiva a beneficio di tantissimi giovani calciatori e giovani calciatrici.

Le indicazioni metodologiche ed organizzative contenute in questo documento rappresentano un valido strumento per la costruzione di allenamenti che tengano conto di tutte le restrizioni in essere e restano valide fin quando non interverranno ulteriori provvedimenti a regolamentare il settore sportivo per i quali sia richiesto un ulteriore adeguamento delle attività.

Per fortuna (mia e di mia moglie...) non mi capita spesso di fare sogni "calcistici"; non li facevo nemmeno quando giocavo, forse perchè la tensione della competizione mi ha sempre preso fino al midollo: eppure questa notte ho sognato che mi esoneravano!

Preveggenza?

Sesto senso?

Era un'evenienza che in quel momento davvero non mi aspettavo, nonostante il mio sembrava essere l'esonero più annunciato di tutti i campionati professionistici degli ultimi 20 anni; pagavo un inizio non proprio brillantissimo (per usare un eufemismo!): le prime 4 partite 4 sconfitte!

Il mio esordio da allenatore professionista non era stato proprio così come lo avevo sognato (per restare in tema onirico) anche se, a dire il vero, la prima uscita ufficiale in Coppa Italia prometteva bene: avevamo battuto il Benevento al primo turno e, in quello successivo, eravamo andati a vincere a Bergamo eliminando l'Atalanta ...

Poi le 4 sconfitte consecutive avevano fatto "crollare" le mie quotazioni -ma non la mia fiducia nel mio lavoro e nella mia squadra- e, così, erano iniziate le "consultazioni" della società e del mio Ds alla ricerca di un "degno" sostituto.

Pertanto, ogni settimana, un paio di miei colleghi disoccupati erano dati già per certi al mio posto. Nonostante ciò io resistevo "aggrappato" alla mia panchina così come un naufrago si aggrappa ad uno scoglio in mezzo al mare e, tutto sommato, restavo sereno e ottimista (il mio self-talk mi aiutava... dopo vi spiegherò di cosa si tratta).

Ma voglio tornare al mio sogno premonitore: mi hanno esonerato proprio quando pensavo di aver risalito la china insieme alla mia squadra; poco a poco, punto dopo punto, eravamo riusciti a restare ancora "vivi": in fondo ieri abbiamo perso al 93' e venivamo da 5 risultati utili consecutivi ... ma al risveglio mi sono reso conto della triste realtà: mi hanno esonerato davvero!

Non era un sogno: era la realtà; vorrei dire ancora la triste realtà, proprio un brusco e brutto risveglio.

E allora: perché mi hanno esonerato?

Bisognerebbe chiederlo ai dirigenti!! Io ancora non gliel’ho chiesto, né tantomeno loro me l’hanno ancora detto... Evidentemente non erano contenti del mio lavoro e di come gestivo il gruppo.

Ma in questi mesi nel mio nuovo, e non proprio piacevole, status di "esonerato" mi sono fatto un'idea di tutto ciò che è accaduto: se in un primo momento, ho ritenuto unica responsabile del mio fallimento la società, per il modo in cui ha costruito la squadra e, soprattutto, per il modo in cui ha gestito le situazioni, adesso, con maggiore lucidità e distacco, vedo il mio esonero da una prospettiva diversa, addirittura costruttiva, in vista di una crescita personale e professionale.

E allora cambierei la domanda: “Dove ho sbagliato?” È questo che devo chiedere a me stesso, provando a darmi una (o più) risposte.

Rapporto con la dirigenza?

Rapporto con lo staff (non era il mio, era della società)?

Rapporto con la squadra?In linea di massima sia sul campo che nella gestione della squadra non mi rimprovero grandi cose: ho gestito le sconfitte iniziali cercando (e credo riuscendoci) di dare alla squadra quotidianamente fiducia e autostima, provando a mantenere stabile ed intatta la mia credibilità nonostante dall'esterno arrivassero messaggi contrastanti ...

Potevo fare di meglio?

Senza dubbio!

Potevo e dovevo fare meglio.

La prossima volta (se me ne daranno la possibilità) farò meglio e sicuramente non perderò le prime 4 partite! Ma di una cosa sono certo: gli errori che ho commesso fuori dal campo hanno condizionato negativamente il mio lavoro sul campo.

Forse ad alcuni interlocutori (e mi riferisco in particolare ai miei dirigenti: Ds o Dt o Presidente che siano) ho "comunicato" il "Pecchia allenatore" in maniera sbagliata.

Non erano quelli i messaggi che volevo inviare loro, li hanno recepiti in maniera diversa da quanto era nelle mie intenzioni.

Che fossero in buona fede (alcuni) o in mala fede (altri...) l'errore è stato mio! Un errore soprattutto di comunicazione.

Ho sempre pensato (e adesso lo penso più che mai) che allenare una squadra fosse una cosa entusiasmante ma che, allo stesso tempo, fosse un lavoro con innumerevoli difficoltà, ricco di variabili impazzite.

Tante volte però, durante la mia carriera da calciatore, ho ritenuto (sbagliando) che il mio allenatore del momento si stesse complicando da solo il proprio lavoro.

Ma adesso, dopo l'esperienza vissuta in prima persona, posso affermare che, forse, la solitudine del ruolo, i carichi di tensione accumulati, gli svariati e differenti interlocutori da fronteggiare, possono far venir meno, in alcuni momenti della stagione, quella necessaria lucidità nel prendere delle decisioni: decisioni che invece, dall'esterno, sembrano semplici e a volte, addirittura ovvie e scontate.

CAPITOLO 1. TIPI DI COMUNICAZIONE

"La creatività non fa a pugni con la disciplina"1 Johan Cruijff

Nel corso degli anni vissuti da calciatore professionista ho visto molti compagni di squadra allenarsi in modo intenso, continuo, caparbio e conseguire scarsi risultati; al contrario, altri ragazzi con gli stessi allenamenti (magari addirittura meno caparbi) conseguire dei risultati strepitosi. Ho visto soggetti fisicamente dotati ma mentalmente deboli o emotivamente fragili non combinare assolutamente nulla e, al contrario, individui in apparenza poco dotati raggiungere livelli notevolissimi.

Quanti sono i calciatori che partono benissimo e promettono ottimamente da adolescenti per poi perdersi durante la carriera e venir meno alle grandi aspettative riposte in loro?

Da queste considerazioni, derivate dalla semplice osservazione della realtà, sia pure dalla prospettiva privilegiata di chi come me ha fatto l'atleta professionista per quasi vent'anni, nascono alcune domande:

- In che misura le componenti psicologiche incidono sulla riuscita in campo sportivo? - Sono le caratteristiche fisiche che fanno di un atleta un futuro campione o quelle psichiche, o un'armonica commistione di entrambe?

- Perché alcuni atleti pur rimanendo nello stesso contesto (società, squadra, città) rendono di più con alcuni allenatori che con altri?

Dal mio punto di vista attuale, ovvero da allenatore, quest’ultima domanda è quella che mi ha spinto alla riflessione e all’analisi oggetto di questa tesi: evidenziare quale strumento straordinario sia la COMUNICAZIONE.

Per l'allenatore è necessario conoscere i principi che la regolano, perché deve essere consapevole che il rendimento di un atleta dipende spesso dalla comunicazione verbale (quanto e cosa gli viene detto) e da quella non verbale (come ci si comporta nei suoi confronti).

Già l'etimologia del termine comunicazione ci fa capire quanto essa sia imprescindibile e, a mio parere, indissolubilmente legata al ruolo stesso dell'allenatore; il verbo comunicare, che nel suo significato latino vuol dire "mettere in comune", ci riporta infatti ad un condividere con gli altri pensieri, opinioni,esperienze, sensazioni e sentimenti.

E cosa deve fare un allenatore se non cercare di rendere una comunità ovvero far diventare una squadra dei singoli atleti?

Quindi l'allenatore è (e deve essere) innanzitutto un comunicatore, inteso come colui che mette in comune, fa condividere tanti singoli egoismi e li plasma in una squadra! Ecco perché allora mi viene da dire che allenare significa comunicare, dove per comunicazione non s’intende semplicemente parlare, ma si presuppone necessariamente una relazione e quindi uno scambio. La comunicazione umana si distingue in:

1) comunicazione sociale;

2) comunicazione interpersonale.

La comunicazione sociale, più nota come comunicazione di massa, viene realizzata da una o da poche persone ed è rivolta a molti (tv, stampa, radio, pubblicità). La comunicazione interpersonale coinvolge due o più persone e si basa sempre su una relazione in cui ci si influenza reciprocamente, spesso senza rendersene conto.

La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in:

a) comunicazione verbale che avviene attraverso l'uso del linguaggio;

b) comunicazione non verbale che avviene senza l'uso delle parole attraverso vari canali: mimiche facciali, sguardi, gesti, posture, andature, abbigliamento;

c) comunicazione paraverbale che riguarda soprattutto tono, volume, ritmo ma anche pause, risate, silenzio e altre espressioni sonore come ad esempio schiarirsi la voce e giocherellare con degli oggetti.

Paul Watzlawick afferma che il primo assioma della comunicazione stabilisce che è impossibile non comunicare. Il processo della comunicazione consiste nell'abilità di passare facilmente dal privato al pubblico e dal pubblico al privato.

Chi parla, per esempio, compie azioni mentali e conferisce loro pubblicità, mentre chi ascolta sperimenta il processo inverso: percepisce ciò che è pubblico e gli conferisce significato passando così al privato.

Che i due privati coincidano realizzando la c.d. “comunicazione perfetta” è ovviamente un'illusione per il semplice fatto che ognuno di noi darà sempre un'interpretazione personale dettata dalla propria esperienza, dalla propria cultura, dalla propria educazione, dal proprio Io.

Per quanto riguarda il nostro campo, ovvero quello dello sport professionistico, solo recentemente, purtroppo, si è capito che, oltre alla competenza sportiva, l'allenatore deve conoscere le modalità di formazione e valorizzazione dell'individuo e, di conseguenza, saper gestire e valorizzare al meglio il gruppo.

A tale scopo è quindi fondamentale saper informare (ed informarsi) e saper comunicare; visto che l'uomo non può fare a meno di comunicare tanto vale farlo bene. Ma non basta: l’allenatore, oltre ad un’efficace comunicazione, deve avere infatti anche una spiccata capacità di ascolto che gli permetta di cogliere i feed-back che quotidianamente la squadra gli lancia, sia per capire in pieno ciò che gli sta comunicando sia soprattutto per verificare se la sua comunicazione è stata efficace.

Tornando alla mia recente esperienza di allenatore posso dire, con il senno del poi, che ho mancato in sensibilità quando il giorno della rifinitura un mio giocatore ha avuto una reazione sopra le righe ad una mia osservazione (il suo sguardo, la sua mimica non erano quelli abituali).

Il giorno dopo in gara ha commesso un errore clamoroso facendoci prendere goal ed è stato protagonista di una prestazione decisamente sottotono.

Purtroppo non ho avuto tempo e modo di indagare successivamente perché i dirigenti mi hanno esonerato proprio dopo quella partita.

Probabilmente se avessi prestato maggiore attenzione a quella reazione, se fossi stato più sensibile e avessi indagato a fondo prima della gara, avrei potuto capire ciò che il giocatore in qualche modo mi stava comunicando; forse era un suo disagio o una sua titubanza.

Certamente avrei potuto comunicare con lui e soprattutto avrei potuto ascoltare le sue parole, i suoi bisogni per aiutarlo a preparare la gara con maggiore tranquillità.

Forse non avrebbe commesso quell’errore e forse io non sarei stato esonerato…ma quella è un’altra storia!

Avendo evidenziato l’importanza della comunicazione è necessario capire come attuarla; infatti, quando si comunica, bisogna tener presente ciò che si vuole comunicare e a chi e come lo si fa; ogni comunicazione risulta efficace nel momento in cui convince qualcuno, ma è anche vero che non c'è un modello di comunicazione assoluto applicabile a tutti e uguale per tutte le situazioni.

Saper parlare al gruppo in ogni momento, facendo attenzione ai continui mutamenti che la squadra vive e saper variare anche lo stile comunicativo in relazione ai momenti della stagione, rappresenta il presupposto essenziale per mettere in pratica qualunque credo tattico.

Se una relazione comunicativa (come quella allenatore-squadra) si basa sul condiviso, quante più cose si conoscono dell'interlocutore, tante più possibilità si avranno di trovare le parole giuste per farsi capire.

Tuttavia tale conoscenza non deve servire a cambiare la comunicazione dell'allenatore al singolo giocatore o alla squadra a discapito dell'autenticità ma solo ad individuare il terreno su cui muoversi per stabilire un punto di contatto.

L'utilizzo dell'esplicito o dell'implicito nel linguaggio varia secondo quanto condividono gli interlocutori: dove vi sono familiarità, abitudini e cultura condivise l'implicito può e deve trovare ampia applicazione.

Dove invece c'è una relazione nuova, ancora nella fase iniziale, con scarsa conoscenza reciproca, incertezza e quindi paura di non essere capiti, è necessario l'esplicito.

Ogni errore può essere fatale per un allenatore/comunicatore, soprattutto nella fase iniziale del rapporto con la squadra; adesso da buon “apprendista comunicatore” devo passare dal "privato" al "pubblico" citando un episodio della mia carriera che mi ha reso evidente quanto fosse importante comunicare in maniera corretta.

Ricordo ancora perfettamente l'errore macroscopico di un mio ex allenatore subentrato a stagione in corso: al suo primo discorso alla squadra scelse una comunicazione verbale e non verbale basata sull'implicito; corse un rischio che si rivelò fatale.

Confrontando le mie considerazioni (e sensazioni) con quelle dei miei compagni si evidenziò una scarsa condivisione da parte nostra: il nuovo Mister aveva sbagliato completamente il canale comunicativo.

E così la sua fu una partenza con handicap che compromise la sua funzione di guida nei confronti del gruppo e la sua avventura con noi fu breve: qualche mese dopo, infatti, venne richiamato l'allenatore precedente.

Quando un allenatore comunica efficacemente, accresce la sua leadership, perché crea un ordine nella "testa" dell'atleta; e quanto più la leadership aumenta tanto più facile è guidare una squadra.

La comunicazione è il mezzo principale che fa nascere un'emozione piuttosto che un'altra.

Tutto dipende dalle informazioni che mente o fisico inviano al nostro cervello.

In base al tipo e alla qualità delle informazioni, il nostro cervello produce infatti alcune sostanze piuttosto che altre.

Spunti interessanti al riguardo li offre la “Teoria Social - cognitiva” dello psicologo canadese Albert Bandura secondo cui la convinzione di autoefficacia, ovvero la valutazione che la persona dà delle proprie capacità di mettere in atto determinate azioni e quindi di raggiungere determinati livelli di prestazione, è una componente fondamentale nel funzionamento della persona, sia in relazione al comportamento manifesto, che alla vita psicologica interna.

Sembrerebbe che le persone con un forte senso di autoefficacia siano più inclini a immaginare eventi futuri positivi, sperimentino un minor numero di emozioni stressanti e siano più capaci di organizzare le complesse abilità cognitive necessarie per far fronte ad ambienti particolarmente impegnativi.

Tra i principi cardine della comunicazione efficace vi è sicuramente quello dell’"unicità della fonte" e nel nostro microcosmo calcistico - in cui troppo spesso tutti si arrogano il diritto/dovere di parlare anche di argomenti di cui sono a digiuno- questo principio diviene ancora più importante. La voce dell'allenatore deve essere unica e tale deve rimanere.

Questo principio viene spesso disatteso soprattutto in panchina dove, tra incitamenti legittimi da parte dei compagni, interventi di collaboratori o dirigenti, si rischia con tali interferenze di inquinarla e depotenziarla.

Attentissimo al rispetto di questo principio un mio allenatore, prima di sedersi in panchina per seguire la gara, quasi come in un rituale prestabilito, si rivolgeva a tutti i presenti e nel suo classico slang romanesco diceva: "Mo’ non voglio sentì più nessuno"  

CAPITOLO 2. COMUNICAZIONE E MOTIVAZIONE

"Nino capì fin dal primo momento, l'allenatore sembrava contento e allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento." Francesco De Gregori

Comunicare è anche motivare e viceversa ...

Un giorno, prima di entrare in campo per l'allenamento, l'allenatore ci chiese di rimanere nello spogliatoio; era un momento delicato della stagione e la domenica avremmo dovuto incontrare una squadra che lottava per lo scudetto.

Dopo qualche minuto di attesa, tra battute e risate, da lontano ho sentito zampettare un animale (ho pensato subito ad un cane, forse perché ne ho la fobia).

Ed i miei timori trovarono immediata conferma: il nostro allenatore era entrato con un Rottweiler nello spogliatoio e, senza profferire parola, lasciò che l'animale ringhiasse (anche abbastanza arrabbiato!) per qualche attimo verso di noi.

Il suo messaggio era chiaro: la domenica avremmo dovuto avere lo stesso atteggiamento del nostro ospite; scendemmo in campo e iniziammo l'allenamento".

Se devo essere sincero personalmente non la presi molto bene... più che la "rabbia del cane" la situazione sottolineò la mia "paura del cane", ed è per questo che io in ogni caso al cane avrei preferito la mitica frase di V. Boskov: "Dai! Dai! testa fredda cuore caldo!"

Nello sport le motivazioni di un atleta possono fare la differenza fra raggiungere o mancare gli obiettivi di performance stabiliti. In psicologia esistono varie classificazioni delle motivazioni; la distinzione classica tra Motivazione Intrinseca e Motivazione Estrinseca mi sembra molto appropriata per qualificare l’atteggiamento mentale dell’atleta nell’esecuzione della prestazione sportiva.

Un atleta con una forte motivazione intrinseca gioca per il puro piacere di farlo, il divertimento diventa il motore della sua partecipazione agonistica e il senso della fatica appare ridotto.

La motivazione estrinseca invece caratterizza gli atleti che nello sport cercano soprattutto riconoscimenti esterni, attraverso rinforzi positivi o negativi (premi o punizioni). Un'altra classificazione possibile sui tipi di motivazioni riguarda il cosiddetto Orientamento al Compito e Orientamento al Sé:

- un atleta orientato al compito desidera confrontarsi con se stesso e ricava piacere dall'apprendere nuove abilità, constatando i suoi miglioramenti.

- un atleta orientato al sé, al contrario, cerca di dimostrare la propria capacità principalmente attraverso il confronto con gli altri, si sentirà perciò realizzato solo quando tale confronto gli sarà favorevole.

Sarà quindi indifferente alla possibilità di migliorarsi, ma sarà motivato dal desiderio di magnificare il proprio ego.

Alcune ricerche hanno confermato una relazione positiva fra orientamento al compito e motivazione intrinseca; soggetti con entrambe queste caratteristiche sono definiti in psicologia a “Controllo Interno”; si tratta di persone che interpretano gli eventi come prodotto del proprio comportamento.

Mentre quelli che fanno dipendere gli eventi da altri fattori (fortuna, fato ecc.) sono definite a “Controllo Esterno”.

Al di là di queste classificazioni è indubbio che la comunicazione, sia con se stesso che con gli altri, deve essere certa, dettagliata e diretta.

La comunicazione certa si ottiene utilizzando i verbi al modo imperativo; quella dettagliata ha lo scopo di dare a noi stessi e agli altri informazioni precise, dettagliate perché la mente di ognuno di noi ha bisogno di elementi precisi per poterli realizzare e quella diretta serve a comunicare con immediatezza a noi stessi e agli altri l’obiettivo perseguito, il desiderio da realizzare e si ottiene utilizzando espressioni quali "Voglio questa cosa": “E’ così! punto e basta”.

L' indecisione, il dubbio, la paura di non farcela, l'incertezza e la poca chiarezza sono i principali ostacoli per le nostre performance. Infatti l'indecisione dei messaggi che diamo a noi stessi e agli altri depotenzia la possibilità di esprimerci e di fare esprimere gli altri al meglio.

Solo grazie alla mia determinazione potrò condizionare la determinazione degli altri.

La determinazione e la convinzione dell'allenatore si trasmette "quasi per osmosi" ai suoi calciatori; a volte tale convinzione (ovviamente orientata all'ottimismo) sembra rasentare la pazzia ma è proprio quando "l'impossibile diventa possibile" che nasce la forza per superare i nostri limiti.

Per questo non potrò mai dimenticare una straordinaria notte allo Stadio S. Paolo di Napoli: ormai sono passati tanti anni ma sento ancora il brivido della folla sulla mia pelle e l'emozione di aver vissuto quel giorno una serata speciale: "Era una partita in notturna contro la squadra di Zeman; il primo tempo si concluse con noi sotto di due reti e "soddisfatti" del risultato, il passivo, infatti, poteva essere molto più pesante: avevamo preso una "bambola" mai vista.

Nel lungo (che in quel momento mi sembrava lunghissimo) sottopassaggio che dal campo ci conduceva negli spogliatoi continuavo a pensare alle numerose occasioni da gol degli avversari e soprattutto mi facevo tante domande (self-talk): "come facciamo ad arginare 'sta squadra?"; "il taglio dell'esterno chi lo assorbe?"; "chi prende la mezzala che si inserisce?"; "per quanto tempo dobbiamo correre dietro a questi assatanati?".

Certamente nella mia testa si erano create delle rappresentazioni negative, ma sfido chiunque in un tourbillon del genere a pensare positivo.

Nel frattempo ero finalmente arrivato nello spogliatoio: mi sedetti sconsolato al mio posto e guardai il resto della squadra: teste basse e nessuno che provava ad aprire bocca un po' per rabbia, un po' per delusione ma, soprattutto, perché avevamo bisogno di recuperare fiato, eravamo in apnea.

Dopo aver bevuto un bicchiere di tè caldo entrò il mister e pensai: "ora ci massacra" e invece, senza dare alcuna indicazione tecnico/tattica, ci disse: "dai dai giovanotti, adesso torniamo su e vinciamo 3 a 2!!" " Sicuro! Sicuro!".

Dire che aveva sorpreso l'intero spogliatoio mi sembra riduttivo.

Eppure l'effetto su tutti noi fu immediato e straordinario; già il viaggio di ritorno verso il campo fu completamente diverso, quel sottopassaggio che solo 15 minuti prima mi era sembrato infinito adesso mi sembrava molto più corto, tanta era la mia voglia di riprendere subito la partita.

Ma nella testa mi frullava un solo pensiero: "il mio mister è un pazzo? o un mago?"...

La gara iniziò in maniera diversa: agevolati anche da un leggero calo di tensione degli uomini di Zeman, accorciammo subito le distanze.

Più passava il tempo e più cresceva la convinzione di poter recuperare la partita.

E anche dopo aver pareggiato il nostro atteggiamento non cambiò, non arretrammo di un metro, eppure dopo un primo tempo del genere aver pareggiato quella partita poteva essere considerato già un grande risultato; ma il mister ci aveva detto che avremmo vinto 3 a 2 e quindi avanti con coraggio a cercare la vittoria.

Il vento evidentemente era cambiato, ma a dare forza alla nostra spinta, oltre al calore di un San Paolo infuocato ed entusiasta, c'era appunto la possibilità di materializzare la "profezia" del nostro istrionico tecnico.

Fu così che negli ultimissimi minuti vincemmo quell’incredibile partita. Proprio come aveva "previsto" il nostro allenatore/comunicatore, quella notte, sicuramente, anche un po' "Stregone".

L'Autore

 Diego ALVERA'

Fonte

Settore TECNICO F.I.G.C.

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    Sito web:

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